Pubblichiamo oggi un articolo tratto dal numero 227 di Altraeconomia in cui, attraverso il racconto delle storie di alcuni migranti, vengono evidenziate le contraddizioni presenti nel provvedimento di regolarizzazione.
di Gianfranco Schiavone, 1 Giugno 2020
Olga è ucraina, fa la badante di una anziana malata; è arrivata in Italia quasi per caso ormai quattro anni fa, per sostituire per un mese una sua amica. È arrivata regolarmente non avendo obbligo di visto. Poi ha trovato un lavoro in nero e ha deciso di rimanere. Il lavoro è pesante ma lei ha bisogno di soldi da mandare a casa e c’è poco da discutere. Tutti conoscono Olga e tutti possono attestare che vive con quella anziana donna alla quale si è affezionata. Olga ha saputo della sanatoria e pensa che finalmente si metterà in regola. Non sa ancora che non sarà così perché non è mai stata fotosegnalata e neanche espulsa (sulla carta) ed essere stati fotosegnalati, o almeno disporre di una attestazione di presenza rilasciata da organismi pubblici, è condizione essenziale per “fare” la regolarizzazione. Olga è, per così dire, troppo invisibile, come lo sono quasi tutte le donne straniere che nel nostro Paese fanno un lavoro di cura.
Abdul è un richiedente asilo con ricorso pendente contro il diniego della domanda; da quando, nel 2018, è stata abrogata la protezione umanitaria dal primo decreto (in)sicurezza, sono tante le domande come le sue che sono finite così. Ma Abdul ha già da un anno un lavoro regolare e con contratto a tempo indeterminato; è disponibile ad abbandonare il suo ricorso per un permesso di soggiorno per lavoro; crede che sia arrivato il momento giusto ma non sa che non è così perché è, per così dire, troppo regolare e non è possibile la conversione da richiesta asilo a lavoro. Abdul resterà in Italia con il suo lavoro a tempo indeterminato fino al momento della decisione sul ricorso; se, come probabile, lo perderà, diventerà un “clandestino”, dopo avere vissuto e lavorato in Italia per anni.
Asif è pakistano, un tempo aveva un permesso di soggiorno ma poi non è riuscito a rinnovarlo. Gestisce un albergo; il suo datore di lavoro sa che lui parla quattro lingue e con i turisti ci sa fare. Asif ha deciso che è la volta buona: il padrone non può dirgli di no. Ma Asif ancora non sa che la regolarizzazione è solo per i settori agricoli e il lavoro domestico e di cura. Per lui non c’è niente da fare neanche questa volta.
Mohammed è un bracciante agricolo, vive da dieci anni in Italia ed è stato espulso, sempre sulla carta, già tre volte. Ogni anno, per tre mesi raccoglie i pomodori, poi per altri due raccoglie le olive, per altri due ancora le arance e poi fa lavori qua e là. Nessuno lo mai assunto e non vive da nessuna parte e nello stesso tempo ovunque in giro per la penisola, sempre in qualche baracca vicino al campo di raccolta. Ha sentito che questa è la sanatoria dei braccianti, proprio la sua, “Stavolta è fatta”. Chiederà a tutti i suoi padroni che l’hanno sfruttato in questi anni per 25 euro al giorno (dieci ore al giorno di lavoro) di fargli un contratto; anche brevissimo, solo per avere finalmente quel maledetto documento, e poi, s’intende, l’ammenda la paga lui. Nessuno dei suoi molti padroni lo farà, perché mai dovrebbero? Per due mesi di lavoro all’anno non se ne parla neanche; che se ne vada pure al diavolo e avanti un altro senza pretese.
Olga, Abdul, Asif, Mohammed sono nel gioco crudele della regolarizzazione 2020, che non è né aperta né restrittiva ma divide i migranti salvati da quelli sommersi senza alcuna ragionevolezza trattando le persone come merce a disposizione. Il testo di legge afferma, non senza solennità, che il fine della norma è quello di “garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da Covid-19 e favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolare”. Intenzioni annunciate ma non realizzate.
Neppure questa volta, nell’anno della pandemia, abbiamo infatti scelto di fare emergere gli stranieri senza permesso di soggiorno sulla base della loro semplice presenza, con semmai poche e nette esclusioni connesse a seri profili penali, dando loro un permesso per “ricerca lavoro”. Per permettere di cercarlo o di tenerlo o ancora di cambiarlo e soprattutto di liberarsi dallo sfruttamento di chi li ricatta. Per permettere a loro, e a noi, di vivere in una società migliore.
Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni nonché vice-presidente dell’Asgi e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste.