
A pochi giorni dall’insediamento di Donald Trump, sono iniziate negli Stati Uniti con grande battage pubblicitario le deportazioni di massa dei migranti centroamericani. Contemporaneamente Trump vuole anche l’abolizione dello ius soli, ovvero del principio giuridico grazie al quale chiunque nasca negli Stati Uniti è automaticamente cittadino di quel paese.
Un diritto che ha rappresentato finora il fondamento della democrazia americana e garantito dal 14° emendamento alla Costituzione, varato dopo la Guerra di secessione e finalizzato a riconoscere come cittadini gli afroamericani appena liberati dalla schiavitù. Alla base del progetto di cancellare questo principio c’è chiaramente la convinzione che sono “veri americani” solo quelli nelle cui vene scorre sangue “puro”.
Due giudici hanno però già emesso una sentenza per bloccare la disposizione del presidente.
«L’ordine esecutivo è in contraddizione con il 14° emendamento, con 125 anni di precedenti della Corte Suprema e con i 250 anni di storia della nostra nazione», scrive nella sentenza Deborah L. Boardman, giudice del Maryland.
Sempre il 14° emendamento recita inoltre che «Nessuno Stato potrà privare nessuna persona di vita, libertà o proprietà, senza giusto processo di legge».
Attenzione: persona, non cittadino (statunitense). Le retate e le deportazioni violano pertanto anche questo principio.
La scappatoia legale comunque c’è, in quanto a deportare non sono singoli stati ma il governo federale e in particola il suo Presidente, che non nasconde le proprie mire autocratiche.
Dobbiamo però essere onesti: ciò che contraddistingue Trump dai suoi predecessori è la ferocia con cui persegue l’obiettivo di liberare l’America dai migranti clandestini e, come si diceva prima, il clamore con cui lo fa. Ma negli Stati Uniti le deportazioni sono state un fenomeno sempre molto diffuso, a partire dalla nascita dello Stato, sia con governi repubblicani che democratici.
Basti ricordare, a metà Ottocento, la deportazione in Canada e poi il trasferimento in Irlanda di 50.000 irlandesi immigrati negli Stati Uniti in seguito ad una terribile carestia che aveva colpito il loro paese.
In tempi a noi più vicini, dopo l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, 1.200 uomini di origine araba e musulmana vennero prelevati dalle loro abitazioni, senza nessuna accusa specifica. Molti di loro furono deportati nei paesi d’origine o in paesi terzi.
Arrivando ai giorni nostri, già Biden aveva “chiuso la frontiera”, quando decise di sospendere gli ingressi se gli arrivi giornalieri avessero superato alcune migliaia di unità; inoltre, nel 2024, ultimo anno della sua presidenza, sono stati deportati ben 271 mila immigrati irregolari.
E Barack Obama, nei suoi 8 anni di governo, ha deportato due milioni e mezzo di irregolari.
In conclusione, la fobia dell’immigrazione sembra essere un virus che colpisce tutti i governi statunitensi (di ogni colore politico e in ogni tempo), che hanno regolarmente dimenticato che gli Stati Uniti d’America sono stati fondati proprio da migliaia e migliaia di europei immigrati oltreoceano a partire dal XVII secolo.