Torniamo oggi a parlare dello sfruttamento dei lavoratori stranieri in agricoltura e dell’illegalità dilagante che caratterizza questo settore produttivo. La maglia nera dell’economia illegale italiana spetta infatti proprio all’agricoltura e il ricorso al lavoro irregolare è da reputarsi come un suo connotato strutturale. È stato calcolato che nel 2017 circa 180 mila lavoratori e lavoratrici sono state vittime di sfruttamento, violazione dei diritti e sotto-salario. E negli anni successivi tanti altri lavoratori hanno pagato, anche con la vita, le insostenibili condizioni di lavoro imposte dai caporali, ultimo il ventisettenne maliano Camara Fantamadi, deceduto nelle campagne del brindisino.
Quello dello sfruttamento dei braccianti è un fenomeno che riguarda tutta l’Italia: tra le regioni più colpite, oltre a Sicilia, Calabria e Puglia, ci sono infatti il Veneto e la Lombardia, seguite da Emilia Romagna, Lazio e Toscana. Particolarmente grave è la situazione delle donne migranti, sottoposte a tante forme di abuso, incluse quelle a sfondo sessuale. Il settore agricolo è ancora pesantemente segnato dal fenomeno del caporalato, che di fatto spesso riduce i lavoratori ad una condizione di semischiavitù.
In agricoltura migliaia di esseri umani non sono liberi di prendere decisioni autonome sul luogo di lavoro e sono vessati fisicamente e psicologicamente dai loro padroni. Guadagnano dai 25 ai 30 euro al giorno, per giornate che possono arrivare anche a 12 ore di lavoro consecutive, se si considera il trasporto. Il che significa, mediamente, due euro all’ora. Da una paga base molto bassa, inoltre, i caporali detraggono i costi sia per il trasporto dagli insediamenti di fortuna dove i migranti vivono fino ai campi dove lavorano che per il pasto, imponendo per questi “servizi” dei prezzi spropositati.
Proprio per combattere questo ulteriore sopruso, nella zona tra Nardò e Porto Cesareo in Puglia, dove ben 2000 ettari di terreno sono destinati alla coltivazione intensiva delle angurie, la Caritas ha istituito l’anno scorso una mensa. Da gennaio a settembre 2020 qui sono stati distribuiti più di 40.000 pasti ai braccianti impegnati nella raccolta. In questo modo la Caritas ha fattivamente contrastato una delle attività principali dei caporali che sottraevano dalla paga fino a due euro per una bottiglietta d’acqua. Sempre in questa zona i caporali si fanno pagare fino a 5 euro al giorno per trasportare i lavoratori sul luogo della raccolta.
Quasi tutti i migranti hanno una bicicletta, anche se in pessime condizioni, ma non è certo possibile percorrere, soprattutto di sera, la statale 101 con questo mezzo di trasporto. Ma nulla si progetta e si realizza per affrontare questa ulteriore forma di sfruttamento. Forse basterebbe che i comuni della zona si consorziassero per garantire una navetta… o è una soluzione troppo semplice? Qualche anno fa è stata varata un’importante legge sul caporalato. Ma in tante zone d’Italia i caporali agiscono ancora indisturbati: per debellare questo fenomeno servono infatti quei controlli che sono invece ancora molto carenti. Il programma nazionale di ripresa e resilienza prevede l’assunzione di circa duemila nuovi ispettori del lavoro su un organico di circa 4.500. Speriamo che tutto non resti sulla carta.
Un problema davvero grave è poi quello abitativo: nella maggioranza dei casi i migranti vivono in veri e propri ghetti. Luoghi davvero strani, che ufficialmente non esistono, o non dovrebbero esistere, e dove invece si ammassano centinaia di persone in condizioni igieniche insostenibili. Luoghi dove si vive spesso tra rifiuti che nessuno provvede a ritirare e a smaltire, senza energia elettrica, acqua potabile e servizi igienici. Luoghi in cui, tra l’altro, facilmente si sviluppano incendi: nel solo ghetto di Foggia, negli ultimi due anni sono morte, bruciate vive, sei persone.
Di recente un cittadino ivoriano H. D. trentenne, rifugiato politico in Italia dal 2009, si è rivolto alla Corte europea dei diritti dell’uomo per chiedere la condanna dello Stato italiano in quanto «lede i diritti fondamentali come il diritto alla vita, alla salute, alla dignità». H.D. da quando è arrivato in Italia ogni anno si reca a maggio in Basilicata per lavorare nelle campagne del Vulture, precisamente a Venosa, e vi rimane fino alla fine di ottobre, alloggiando in uno dei tanti casolari abbandonati e fatiscenti della zona. È stato sostenuto nella sua battaglia legale contro l’eliminazione degli insediamenti informali da tante associazioni tra cui Libera Basilicata e Migranti Basilicata, secondo cui gli insediamenti informali sono «l’emblema dell’irragionevole insufficienza e inefficace azione amministrativa di Stato, Regione Basilicata ed enti locali nella tutela del diritto fondamentale alla vita e del diritto di non subire trattamenti inumani e degradanti».
Chiudiamo con un ultimo tristissimo aspetto relativo alle condizioni di vita e lavoro dei migranti braccianti: queste condizioni sono talmente insostenibili che spesso chi deve sopportarle è costretto a ricorrere all’uso di droghe. La scorsa estate un medico di Sabaudia è stato arrestato per aver prescritto centinaia di volte sostanze dopanti ai lavoratori sikh che lavoravano nell’Agro Pontino. Qui le condizioni lavorative sono talmente degradanti che da qualche anno i lavoratori di origine africana le hanno rifiutate. Il loro posto è stato ben presto preso però da gruppi di indiani, tra cui i sikh, disposti a tutto pur di sopravvivere.
Fonti: Repubblica del 18 Luglio e del 7 Agosto.