La tratta di esseri umani (e soprattutto di donne) dai paesi africani verso l’Europa è un fenomeno che dura ormai da molti anni ed è ben noto a tanti.
Migliaia di donne, spesso minorenni, vengono convinte, da vere e proprie organizzazioni criminali, a trasferirsi in Europa con l’offerta di una prospettiva di vita migliore. In realtà, quella che le attende è una condizione di vera e propria schiavitù e una vita trascorsa sui marciapiedi europei.
Il fenomeno riguarda soprattutto la Nigeria, ma coinvolge anche ragazze di altri paesi africani. A volte, però, la complessa macchina della tratta si inceppa: i trafficanti, con la loro “merce umana”, vengono intercettati mentre attraversano la Libia o vengono fermati dalla guardia costiera quando già hanno iniziato la traversata del Mediterraneo.
In questo caso, le ragazze oggetto di tratta finiscono in uno dei tanti campi per migranti che anche l’Italia, dal 2017, finanzia… e qui, invece di essere liberate dalla schiavitù verso la quale erano dirette, sono costrette a subirne un’altra, imposta da altri padroni.
Secondo le testimonianze e le denunce di tanti rifugiati, infatti, i direttori di alcuni campi gestiscono un complesso sistema di vendita di schiavi a cittadini libici che li utilizzano per vari scopi.
Nel campo di Tarek al Matar durante l’estate del 2018 sparirono 20 uomini, 65 donne e diversi bambini, nonostante la presenza nel campo di organismi internazionali e di alcune Organizzazioni Non Governative italiane.
Sul quotidiano il Manifesto dello scorso 15 dicembre sono state pubblicate le storie di alcune ragazze che erano a Tarek al Matar: una di loro «finì in una casa di Tripoli, a lavorare come domestica: orari terribili, cibo scarso e stipendio pari a zero. Ma non solo. L’uomo la violentava, continuamente. L’aveva comprata, la considerava sua proprietà».
Sembra che nei campi libici, finanziati, ripetiamolo, dal governo italiano, la vendita di esseri umani sia un fenomeno molto frequente: gli uomini sono venduti per lavorare nell’edilizia o come soldati nelle diverse bande armate, le donne invece sono cedute come prostitute ai gestori dei postriboli locali.
Ma, molto frequentemente, il destino delle donne è quello di andare a servire nelle case di ricchi cittadini libici, come schiave sessuali e come domestiche nello stesso tempo. L’Europa si è sempre impegnata, sul proprio territorio, a prevenire e reprimere la tratta di esseri umani e a proteggerne le vittime con programmi finalizzati al loro reinserimento.
In Italia è stato istituito, presso il Ministero dell’Interno, un Numero Verde Anti Tratta (800 290 290), al quale ci si può rivolgere per ricevere accoglienza e partecipare a progetti per un inserimento nel mondo del lavoro. Si cerca anche di individuare le vittime al momento dello sbarco e nei centri di accoglienza. Ma l’identificazione non è facile, perché spesso viaggiano insieme ai trafficanti, in maggioranza donne (le cosiddette madames), che fingono di essere parenti o amici.
Ma nessuno si pone il problema delle donne che, dopo essere state catturate dalla guardia costiera libica, vengono portate nei campi e lì ridotte in schiavitù.
Secondo una testimone, «L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni a Tripoli ci considerano semplicemente migranti economiche, nigeriane non degne di protezione internazionale» pertanto, al massimo, le agenzie dell’Onu si impegnano per il loro rimpatrio nei paesi d’origine.
Ma questa soluzione non è certo delle migliori, in quanto il rischio di una “tratta di ritorno” è altissimo. Se molte donne accettano di tornare in patria è solo perché l’alternativa sarebbe la schiavitù sicura in Libia.
L’Associazione Studi Giuridici Italiani, delle cui iniziative legali a favore dei migranti abbiamo spesso parlato, ha pertanto impugnato i finanziamenti concessi dal Ministero degli Esteri italiano all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni per i rimpatri delle donne vittime di tratta.
La scelta giusta da compiere sarebbe una sola: identificare già in Libia le vittime di tratta, separarle dai loro trafficanti e provvedere, attraverso degli appositi corridoi umanitari, al loro trasferimento in Europa.